Riscoprire le regole per vivere in una società in cui tutti siamo liberi allo stesso modo

 

Siamo in vacanza. Un bel campeggio, perfettamente inserito nel paesaggio marino di dune e macchia mediterranea, modello di rispetto per la natura, la cui filosofia vede il campeggiatore come ospite della stessa e non come invasore.

In un pomeriggio di relax e di giochi con i bambini, scorgiamo tre adolescenti che con sprezzo disarmante gettano tra la preziosa vegetazione dei sacchetti di spazzatura, peraltro a pochi metri da un’area ecologica appositamente predisposta.

Li cogliamo sul fatto, ma nonostante ciò negano spudoratamente l’evidenza. Dopo varie insistenze ammettono l’azione compiuta, ma sminuiscono la gravità dell’atto commesso e chiedono di non parlarne ai loro genitori. E invece proprio a loro andiamo diretti, perché è su di loro che ricade la responsabilità di un simile gesto e, più in generale, grava l’onere del processo educativo. Già, perché l’educazione è un processo, un percorso lento e progressivo, in salita, pieno di ostacoli e pericoli e richiede un costante impegno soprattutto attraverso il buon esempio.

Noi genitori siamo il principale modello per il bambino, la sua sicurezza, la sua gioia, per cui preciso nostro compito è di essere all’altezza di tali aspettative, svolgendo il nostro ruolo educativo in modo autorevole, cioè attraverso il buon esempio e la coerenza, e non autoritario, tenendo sempre presente che le abitudini degli anni dell’infanzia restano per la vita.

Nell’età scolare entrano in gioco le insegnanti, che si occupano dell’istruzione e dell’educazione dei bambini, affinché crescano futuri cittadini rispettosi delle regole e responsabili, ma l’educazione, nel senso più profondo, resta responsabilità sempre della mamma e del papà. Un compito meraviglioso, delicato e terribile al tempo stesso: significa fare dei propri figli ragazzi sereni ed equilibrati. Ecco che quindi deve nascere una sinergia tra famiglia e scuola, i due assi portanti della formazione. Per questi due pilastri deve essere chiaro il progetto di vita sui bambini: essere inseriti nella società di oggi sapendo accogliere gli atteggiamenti rispettosi delle regole e opponendosi ai cattivi esempi. La società si cambia partendo dalle piccole cose, rifiutando prepotenze ed ingiustizie. Il rispetto va rivolto prima di tutto alle persone, ma non va trascurato nemmeno il decoro, la pulizia, l’igiene del quartiere e della città, che siamo chiamati a difendere con tenacia, orgoglio e passione.

Ma come mai se ci guardiamo intorno soprattutto nel nostro paese, sembra che sia fortemente carente il senso civico, e che la tendenza a non rispettare le regole del vivere insieme sia profondamente radicata? L’egoismo, il narcisismo e la ricerca del personale e immediato vantaggio porta ad assumere atteggiamenti irrispettosi nei confronti degli altri e dell’ambiente, spesso auto giustificato dall’idea che “tanto lo fanno tutti” oppure dalla superficialità racchiusa nella frase “cosa vuoi che sia”.

La responsabilità di tutti al rispetto delle regole e la buona educazione non consistono soltanto nel comportarsi bene, ma anche nel fare in modo che gli altri facciano altrettanto: anche ciò va insegnato ai bambini. Questo aspetto è poco popolare da noi (“Ma di che t’impicci? Lascia perdere, vivi e lascia vivere..”). Tale modo di agire e di pensare ha anche creato una sorta di assuefazione ai piccoli, ma anche grandi abusi. Una delle cause di questa situazione è che nel nostro paese non c’è un sistema punitivo incisivo ed adeguato. Qualsiasi forma di educazione è fatta di premi e punizioni, per cui la loro mancanza lascia libero spazio a comportamenti irrispettosi che danneggiano la collettività. Gli psicologi affermano che si ottiene di più con i premi che con le punizioni, il che è certamente vero, ma tra gli uomini, di premi per un buon comportamento, anche da parte dello Stato, se ne vedono ben pochi, mentre le punizioni tendono ad essere attenuate un po’ in tutti gli ambienti, a partire dalla famiglia.

Così il vantaggio nel commettere un illecito sembra essere maggiore dell’eventuale punizione che forse non arriverà mai, o comunque sarà attenuata da sconti, condoni, prescrizioni. La mancanza di un efficace sistema di premi e punizioni ha provocato anche lo sviluppo di un apparato burocratico molto complesso e farraginoso che favorisce la tentazione per così dire a “saltare la fila” in modo illecito, creando così un terreno fertile per la corruzione.

Ecco allora che, laddove la società sembra permettere tutto, con una scarsissima assegnazione dei giusti meriti a chi si comporta seguendo quei valori che dovrebbero far parte del patrimonio della collettività, la cellula famiglia (genitori) incontra molte difficoltà nella formazione dei ragazzi di oggi e soprattutto delle donne e degli uomini di domani.

Ma non esiste una scuola per i genitori che insegni loro ad essere bravi educatori, ognuno spesso si aggiusta come può. I genitori di oggi, spesso, sono soli. E’ per questo che una delle cose migliori che possono fare è allearsi tra loro, ma parlandosi, impegnandosi in comitati, associazioni, nel sociale, nel campo religioso o anche solo guardandosi in faccia, evitando di ricorrere a quelle chat dove si sfogano le ansie e le frustrazioni di tutti.

Sulle nuove possibilità messe a disposizione da questa nuova era digitale si apre infatti un altro capitolo fondamentale: molti di noi mamme e papà sempre di corsa, fanno fatica a stare al passo con i nuovi scenari telematici, vedi chat e gruppi di whatsapp dei propri figli ad esempio (ricordiamo che per legge solo dai 13 anni in poi ne sarebbe consentito l’uso), non riescono nel controllo e via via si va perdendo l’attenzione dei figli e la centralità di quel nucleo su cui tutto dovrebbe girare chiamato famiglia. Pensiamo che ci dovrebbe essere più attenzione su questo tema così importante, chi ha figli in età pre-adolescenziale prova sulla propria pelle cosa vuol dire fare i conti con questa sbornia digitale che sta investendo generazioni tanto giovani quanto impreparate nel gestire strumenti che, andrebbero forniti solo dopo averne spiegato con contezza e competenza, rischi e possibilità.

Sul fronte della scuola, il secondo pilastro della buona educazione, le problematiche non mancano, infatti:

– le tante riforme ed i relativi tagli economici che si sono succeduti e che hanno investito la Scuola Pubblica hanno aggravato la situazione: l’insegnamento delle norme costituzionali, dei principi di convivenza civile è sparito del tutto. Siamo arrivati alla materia “cittadinanza e costituzione” senza un orario assegnato, affidata alla sensibilità dell’insegnante, mentre dovrebbe essere prevista anche un’ora di Educazione Digitale, come in molte altre parti del mondo più civilizzato;

– la scuola poi tende a non bocciare più nessuno, un concetto importante quale la meritocrazia, in cui chi s’impegna ha maggior ragione di raggiungere, non solo risultati, ma prospettive migliori, si risolve in un egualitarismo al ribasso, dannoso proprio per i figli delle classi meno abbienti.

Eppure in un momento in cui la discussione su diritti e doveri dei nuovi arrivati è così forte, in cui è diventato centrale il tema di quali sono i principi e i percorsi per diventare italiani, sarebbe importante che anche i nostri ragazzi possano studiare a scuola di cosa stiamo parlando. La Costituzione sarà anche “la più bella del mondo”, ma è una bellezza che a quanto pare non vogliamo conoscere.

− gli antichi punti di riferimento (la religione, la politica, ormai persino la scienza) hanno perso la loro autorevolezza, sostituiti dal potere pervasivo, fintamente democratico e sommamente allettante dei social e della pubblicità; il mito dell’immediatezza, del “tutto e subito” ha fatto perdere la capacità di saper aspettare, saper rimandare la gratificazione, di sacrificarsi, rendendo i giovani fragili di fronte alle difficoltà, che comunque sono inevitabili.

Infine il narcisismo, il nemico più irriducibile, ha sostituito le regole della convivenza con gli stati d’animo, e i sentimenti con il sentimentalismo. I genitori che faticano a farsi obbedire dai figli, si limitano a corteggiarli, illudendosi di proteggerli dalle insidie del mondo, evitando loro anche la minima fatica e sconfitta.

Nonostante tutto, non si può rinunciare al ruolo di genitori, che è ciò di cui un figlio continua comunque e sempre ad avere bisogno, a patto che la smettano di fare la parte degli avvocati difensori o dei fratelli maggiori.

Per concludere, abbiamo avuto l’opportunità di leggere “Le regole raccontate ai bambini” di Gherardo Colombo (magistrato di mani pulite) e Marina Morpurgo (scrittrice per bambini): con parole facili e concetti semplici introduce i bambini e i loro genitori nel mondo del diritto e ci fa capire che solo rispettando le regole avremo una società in cui tutti siamo liberi allo stesso modo.

 

 

 

Disagio preadolescenziale (o di un progetto che ha nel futuro la sua possibilità)

Numeri

Quando si parla di autolesionismo si fa riferimento a tutti quei comportamenti di attacco intenzionale a parti del proprio corpo, tendenzialmente le braccia o le gambe.

Il 20% degli adolescenti italiani si fa intenzionalmente del male, in maniera nascosta, nel silenzio della propria stanza o del proprio bagno.

Generalmente i ragazzi usano lamette, oggetti appuntiti o taglienti per graffiarsi, tagliarsi e ferirsi in qualche modo oppure si bruciano con accendini o si colpiscono, sbattono i pugni o altre parti del corpo su pareti, muri o vetri.

Il cutting, ossia il tagliarsi, è la forma più frequente, soprattutto tra le ragazze.

Le Challenge o Sfide Social sono uno dei problemi del momento e racchiudono tutte quelle catene che nascono nei social network in cui si è nominati o chiamati a partecipare da altri attraverso un tag. Lo scopo in genere è di postare un video o un’immagine richiesta, per poi nominare altre persone a fare altrettanto, con il risultato di diffondersi a macchia d’olio nel Web, anche nell’arco di poche ore.

2 adolescenti su 10 hanno partecipato ad una catena social e il 50% ha avuto una nomination.

Circa 1 adolescente su 10 ha preso parte ad una catena alcolica, con la finalità in genere di bere ingenti quantità di alcool in pochissimo tempo, altri hanno fatto selfies mentre vomitavano o in condizioni prossime all’intossicazione alcolica.

A questi si aggiungono le modalità in cui il corpo e la magrezza hanno un ruolo centrale, a cui aderiscono circa 5 ragazze su 100, favorendo lo sviluppo di patologie nell’alimentazione. Le modalità più conosciute legate all’ispirazione deviata al magro sono l’arco tra le gambe (Thigh gap), il ponte nel costume da bagno sulla pancia (Bikini bridge), la fessura in pancia (Belly slot) e far girare il braccio dietro la schiena fino a toccarsi l’ombelico (Belly botton).

Nella fascia di età compresa tra gli 11 e i 13 anni, i dati più preoccupanti in assoluto sono due, quasi il 14% dichiara di metter in atto pratiche autolesive in maniera ripetitiva e sistematica (dato in aumento del 2,5% in un solo anno – 2016 su 2015 -) e l’età media in cui iniziano a farsi del male è pari a 12,8 anni.
I dati sono stati raccolti su un campione composto da circa 8.000 adolescenti sul territorio nazionale.

Fonte: Osservatorio Nazionale Adolescenza

 

Preadolescenti e disagio

Non vi è una definizione univoca della preadolescenza.

Le disposizioni del codice penale definiscono tutti coloro che non hanno raggiunto i quattordici anni “incapaci di intendere e di volere”. L’assunto è dunque che fino ai quattordici anni il sistema di valori è ancora incompleto, se non indeterminato, e le conseguenti capacità di compiere scelte consapevoli sono ampiamente ridotte.

Ma si tratta appunto di una definizione di legge. Per altri aspetti della loro vita i preadolescenti sono trattati come un gruppo di età ben definito ed assolutamente “capace di intendere e di volere” e tutte le evidenze della vita quotidiana portano a sostenere ciò. Sicuramente sono considerati dei consumatori con capacità decisionali nell’acquisto e nella fruizione di beni, addirittura i media considerano i preadolescenti una categoria distinta dalle altre, infatti i film, la musica, i libri, i fumetti a loro destinati, sono facilmente identificabili sul mercato.

Il messaggio che la società nel suo complesso trasmette a questa fascia di età è quindi fortemente contraddittorio. Da un lato vengono considerati alla pari dei bambini, cioè irresponsabili, immaturi, non ancora pronti per il mondo del lavoro, bisognosi di acquisire competenze e conoscenze indispensabili per entrare nella vita, dall’altro li si tratta in modo diverso da come viene trattata l’infanzia. Li si considera portatori di propri bisogni ed esigenze specifiche, si riconosce loro un certo grado di autonomia e di capacità decisionale, si costruiscono immagini e rappresentazioni del mondo destinate a loro.

I ragazzi che rientrano in questa fascia di età sono portati a cercare solidarietà e comprensione nella rete amicale. E’ in questa fase della vita che si cerca di costruire una propria identità e si tende a costruire un sentimento di appartenenza generazionale, basato sulla condivisione di una condizione comune e di un sentire in sintonia con i propri coetanei, distaccandosi dal mondo adulto e lentamente ed in parte, dalla propria famiglia di origine.

 

Famiglia

Negli ultimi decenni i rapporti interni alla famiglia si sono modificati, sono cambiati i modelli educativi come conseguenza di una sempre maggiore attenzione verso i ragazzi ed i giovani, si va così affermando lo schema della famiglia affettiva, caratterizzata da un atteggiamento iperprotettivo dei genitori nei confronti dei figli, con padri e madri disposti a concedere quasi tutto, in nome dell’affetto e della quiete.

Un figlio diventa il soggetto al quale sono destinate tutte le cure e le attenzioni, non si tratta più solo di allevare una prole, oggetto di un elevato investimento emotivo, ma anche di difenderla dal mondo esterno, dalle incomprensioni e dai pericoli che possono derivare dagli “altri”, ancorando di fatto i ragazzi all’interno dell’ambiente familiare. In definitiva una camera di compensazione della vita e dei suoi rovesci.

È in tal modo che il periodo delle scusanti, dell’irresponsabilità e della non punibilità si prolunga sempre più, andando ben oltre gli anni dell’adolescenza, assumendo così particolare rilievo nella formazione della personalità, proprio nella fase della preadolescenza.

La famiglia non è più il luogo nel quale si imparano le regole del vivere civile per poter “stare al mondo” in modo consapevole e responsabile, ma diventa, prevalentemente, il luogo degli affetti.
Un luogo nel quale si possono ritrovare a vivere due o più generazioni di adulti, destinandola così a svolgere la funzione di rete di sostegno reciproco.

 

Scuola

Con genitori diventati particolarmente protettivi nei confronti dei loro figli e che assumono spesso un atteggiamento giustificazionista di fronte alle loro mancanze, non esitando a prenderne le difese a prescindere, il ruolo della Scuola si è fatto oltremodo complicato.

Gli insegnanti, non a caso, denunciano spesso la difficoltà di rapporto proprio con le famiglie dei loro allievi; questa incomunicabilità non fa che accrescere il senso di estraneità dei ragazzi nei confronti della Scuola stessa, in un’età questa della pre-adolescenza, in cui prende forma la tendenza di costruirsi una personalità “altra” e separata da quella degli adulti, trovando tra i coetanei la fonte e l’approdo naturale per la propria identità in via di definizione.

Questa separazione, che nasce dall’incoerenza fra le finalità formative, educative e socializzatrici delle due istituzioni, è una frattura tra due mondi cruciali nella formazione di un preadolescente, e rende particolarmente complesso porre in essere, ex post, politiche educative efficaci.

E quanto più vi sarà uno scollamento tra Scuola e Famiglia da un lato, tanto più si potrà registrare un aumento del disagio tra i preadolescenti dall’altro.

La Scuola, pur con tutti i suoi limiti è, e resta, il luogo socialmente deputato ad affiancarsi proprio alla Famiglia per dare al soggetto il diritto alla partecipazione attiva alla società attraverso l’istruzione e la costruzione degli apprendimenti. Il luogo di relazioni significative con gli adulti e con la Cultura, attraverso cui si può influire sulle manifestazioni di disagio (lì proprio dove si notano maggiormente e si possono prevenire i primi fenomeni di devianza), con il fine ultimo di condurlo a trovare il suo posto, anche lavorativo, nel mondo.

E’ importante parlare anche di successo ed insuccesso scolastico, inteso come investimento o disinvestimento emotivo del soggetto alla partecipazione della vita scolastica. A ciò si lega, per la persona in crescita, la possibilità d’immaginarsi adulta.

L’insuccesso scolastico viene letto non solo come una perdita di speranza rispetto alle possibilità di apprendere, ma anche sotto la luce di poter diventare un elemento che toglie al ragazzo la speranza di poter trovare una dimensione costruttiva per l’esistenza, una situazione esistenziale dove l’immagine distorta è l’impossibilità di credere che la sua azione nel mondo possa essere positiva.

Il disagio, portato a Scuola, è lo specchio del disincanto di ritrovarsi a vivere passioni neutre (quando non neutralizzate) che dominano la società attuale e portano alla strutturazione di un’identità in cerca di emozioni declinate al presente in luogo di mancanza di futuro, così come avviene anche per gli adulti.

 

Conclusioni

Una delle caratteristiche proprie dell’adolescenza è quello di integrare gli aspetti cognitivi con quelli emozionali, aspetti che, se non risolti, sono alla base del disagio preadolescenziale e dell’insuccesso scolastico.

Ciò dona un nuovo significato al concetto di “apprendimento significativo” e lo lega all’identità del soggetto, portando una nuova luce sulla definizione e l’acquisizione delle competenze di una persona in formazione, costituendo di fatto un vincolo forte, per credere in un progetto che ha nel futuro la sua possibilità.

 

Femminicidio: ragionamenti da un dopoguerra mai davvero cominciato

Numeri

In Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni, 157 nel 2012, 179 nel 2013, 136 nel 2014 e 128 nel 2015 (fonte UniCusano), oltre 100 dall’inizio del 2016 (fonte Corriere della Sera)

Ma la violenza contro le donne è fenomeno così ampio e diffuso che non può essere rappresentato solo dalla conta, tragica, delle morti.

Dopo le frasi sessiste di Trump, ad esempio, le donne hanno raccontato le loro storie di violenza quotidiana, attraverso un hashtag lanciato su Twitter (#notokay), è emersa con chiarezza quella che il New York Times definisce «la cultura dello stupro», e che va ben oltre le parole di Trump: hanno scritto oltre 27 milioni di donne.

In Italia, 6 milioni 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni, il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri (652 mila) e tentati stupri (746 mila). Il 10,6% delle donne ha subito violenze sessuali prima dei 16 anni. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o ex, sono loro quelli che commettono le violenze più gravi, sino al Femminicidio (fonte Istat).

Si potrebbe continuare snocciolando numeri che riguardano le donne straniere, anello ancora più debole di una catena di violenza cieca ed inaudita, ma sarebbe discendere solo ulteriori gradini di un girone infernale.

Ma da questa spirale si deve partire, va conosciuta ed analizzata attentamente, al fine di predisporre politiche di governance, interventi nel tessuto sociale e culturale del paese, fino ad articolare azioni repressive finalmente efficaci.

Il tutto per porre fine a questa mattanza non più tollerabile, quasi fosse una guerra non dichiarata, in cui la preoccupazione più grande resta, comunque, quello di un dopoguerra mai davvero cominciato.

 

Quadro normativo ed interventi governativi

Il governo è intervenuto recentemente con lo strumento della decretazione di urgenza ex art. 77 Cost. decreto legge 14 agosto 2013 n. 93, convertito con modifiche dalla legge 15 ottobre 2013 n°119.

Il nostro Paese comunque, già prima dell’emanazione del decreto legge sul Femminicidio, con la legge 27 giugno 2013 n. 77, aveva ratificato la “Convenzione sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica” sottoscritta ad Istanbul dai membri del Consiglio d’Europa il 15 maggio 2011 (cd. Convenzione di Istanbul).

Il nuovo quadro normativo, in sostanza, da un lato aumenta le pene afflittive per chi si macchia di violenze, minacce, stalking e femminicidio, dall’altro determina tutta una serie di interventi in favore della vittima, tra i quali:

 –   Patrocinio gratuito a spese dello Stato per le persone offese

–   Intercettazioni telefoniche a tutela della vittima

–   Controllo mediante braccialetto elettronico in caso di lesioni personali procedibili d’ufficio o comunque aggravate e minacce aggravate (612, secondo comma c.p.), commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente

–   Arresto in flagranza, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dall’articolo 572 e dall’articolo 612-bis del codice penale (cfr. art. 380, comma 2, lett. l-ter).

Oltre il cambiamento normativo, il Ministero dell’Interno ha attivato da questa estate una campagna di sensibilizzazione chiamata #questononèamore mettendo a disposizione postazioni mobili della Polizia con un team di operatori specializzati.

Il Team composto da uno psicologo della Polizia, un operatore della squadra mobile, uno della divisione anticrimine e un rappresentante della rete locale antiviolenza, «quella parte della società che si fa carico di sostenere le vittime», l’ha definita il Capo della Polizia, Franco Gabrielli, sottolineando l’aspetto insidioso di questo tipo di reati, che «prima ancora sono un fenomeno culturale».

 

Le trasformazioni sociali: maschile e femminile alla ricerca di nuovi ruoli ed equilibri

Sin dall’antichità la donna è stata sottomessa all’uomo, prima al padre, poi al marito, e non aveva né diritti, né grande possibilità di movimento ed era fondamentalmente relegata in casa.

A partire dal Medioevo, le donne cominciarono a lavorare fuori casa, anche se il loro ruolo principale continuava ad essere quello di prendersi cura della famiglia, nella cornice formale del matrimonio che, generalmente, era combinato dai genitori non su criteri affettivi, bensì su quelli della convenienza economica.

Il compito principale della sposa era infatti quello di garantire alla famiglia eredi e successori, infine trasmettere nome e ricchezze.

Questa condizione femminile, cui era riconosciuto appunto un ruolo essenziale nell’educazione della prole, non ebbe mutamenti significativi per secoli.

Nel periodo moderno si ebbero importanti cambiamenti invece, grazie alla diminuzione della mortalità si accelerò il passaggio dalla famiglia, intesa come soggetto economico primario, alla famiglia intesa come unità di tipo sentimentale, raggiungendo prima la stabilità demografica e successivamente l’incremento inarrestabile per come lo conosciamo oggi.

Oggi il modello della famiglia tradizionale sta subendo colpi significativi, per la generale emancipazione culturale, in particolare proprio di quella delle donne.

Nascono le “nuove famiglie” e la soggettività assume via via un ruolo centrale nella società, in questo contesto la figura del padre-marito, che impone la sua autorità sugli altri membri della famiglia, è entrata definitivamente in una linea d’ombra.

I ruoli tradizionali non appaiono più come capaci di rappresentare e garantire le relazioni amorose tra i sessi, relazioni che si fanno sempre più elettive e fondate principalmente su una scelta personale.

Le donne diventano sempre più emancipate culturalmente e spesso vivono da sole, creando financo delle famiglie unipersonali, superando così limiti culturali ancestrali e diventando via via più competitive, rifiutando il ruolo di spalla, men che mai quello che le vede relegate ad una qualche subalternità.

Alla luce di quanto esposto sopra, il ruolo dell’uomo attraversa una fase di cambiamento radicale quanto profonda, e si va sovrapponendo ai mutamenti culturali e sociali del nostro tempo, tanto veloci quanto complicati da mettere a fuoco, in assenza di una capacità di lettura profonda della realtà o di un’attitudine funzionale quanto predisposta all’empatia.

Lo stereotipo che vuole l’uomo costretto nel ruolo di pater familias, figura sempre forte, dominante e sicura di sé, ha progressivamente lasciato il passo, negli ultimi decenni, a modelli meno definiti con i quali gli uomini possono riuscire ad identificarsi.

Il prodotto di tutto questo è che gli uomini perdono la posizione privilegiata di cui hanno sempre beneficiato ed incontrano difficoltà inedite a mantenere potere e credibilità agli occhi dell’altro sesso, nonché ai propri.

L’uomo in crisi, che vive come una minaccia la perdita della propria identità, molto spesso finisce per evitare ogni confronto e reagisce chiudendosi difensivamente in sé.

Semplificare la quotidianità secondo uno schema, organizzare le informazioni di ciò che si vive in categorie immutabili, può dare l’illusione di un malinteso senso di sicurezza e controllo sulla realtà. Ma è intransigenza appunto e non forza.

Se a ciò aggiungiamo il retaggio di un recente passato (parliamo di 50 anni fa o poco più), in cui le donne, in certe zone del paese, valevano poco più di un capo di bestiame, o dove il suffragio universale è stato introdotto solamente nel 1946, forse riusciamo ad inquadrare meglio la questione ed i prodromi che l’hanno prodotta.

Tanti, troppi uomini, reagiscono a questo cambiamento mostrando aggressività, prendendosi con la forza quello che, ai loro occhi, questa nuova società in divenire, fondata sulla sentimentalizzazione invece che sull’autoritarismo (processo che non concepiscono), gli sta pian piano portando via: che sia una donna, una casa, o i figli (quando non tutti e tre).

Troppo spesso la reazione, incontrollata e criminale, è quella di riprendersi (o portare via con se) quello che, credono sia, una loro proprietà.

 

Conclusioni

Di fronte ad un problema così drammatico, trarre conclusioni diventa un esercizio tanto ardimentoso quanto fondamentalmente inutile.

Ripartire forse dal rapporto madre-figlio(maschio)? E’ una possibilità. Sicuramente si deve investire sull’educazione ed i corretti percorsi di crescita dei nostri figli.

Ma quando istituzioni salde da millenni, come la famiglia ed il matrimonio, vivono una crisi profonda e senza precedenti, dobbiamo forse anche sforzarci di immaginare contenitori nuovi? Più al passo con questi tempi di permanente connessione ma corporeità assente o con poco segnale?

Eppure a terra giacciono tanti corpi, centinaia e centinaia di corpi.

Una guerra questa sul corpo delle donne mai veramente dichiarata, ma mai nemmeno risolutivamente ripudiata, attraverso uno sforzo di comprensione e presa di coscienza collettiva.

Cosa rimane allora?

Dov’è che siamo rimasti soli con i nostri demoni, oltre il ripensare gli argini del nostro scorrere e ricomporre il puzzle in frantumi del nostro sentire?

Come pirati storditi in fuga da una strage, involontari colpevoli in fondo, di un unico imperdonabile peccato originale, quello che ci fa estranei tra eguali: non ci hanno insegnato ad amarci.

 

FONTI E LINK UTILI

www.altalex.com

Istat

Corriere della Sera

Ministero dell’Interno
 

femminicidio“Bien trop de femmes dans bien trop de pays parlent la meme langue: le silence”
[Anasuya Sengupta]
 

Cyberbullismo e Sicurezza Digitale: una terra di nessuno da non svendere all’incanto

Rischi (Cyberbullismo)

Il 72% dei giovanissimi riconosce nel Cyber-bullismo la principale minaccia per se stessi.
Per tanti di loro arriva a compromettere il rendimento scolastico (38%), la volontà di stare insieme ai coetanei (65%), e nei peggiori dei casi può provocare depressione (57%).

Il fenomeno è ritenuto più pericoloso della droga (55%), del pericolo di subire una molestia da un adulto (44%) o del rischio di contrarre una malattia sessualmente trasmissibile (24%).

Sono alcuni dati dell’indagine ”I ragazzi e il Cyber bullismo” realizzata da Ipsos per Save the Children e diffusa alla vigilia del Safer Internet Day, la giornata istituita dalla Commissione Europea per la promozione di un utilizzo sicuro e responsabile dei nuovi Media tra i più giovani.

I dati si riferiscono al 2013, e non sono in miglioramento.

Gli episodi di bullismo solitamente avvengono a scuola, in cortile o per strada.
Le nuove tecnologie amplificano questa situazione. Il bullo può raggiungere in qualsiasi momento la vittima, in quanto lo smartphone è sempre in tasca.

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A ciò si aggiunga che chi compie atti di cyber-bullismo non ha la percezione delle conseguenze che provoca e dunque si sente legittimato a compiere azioni più gravi rispetto alla condotta quotidiana.

Una spersonalizzazione legata agli ambienti virtuali che spinge ad osare di più. La vittima non sa più alla fine chi è il bullo, né chi è il pubblico. Potenzialmente centinaia, migliaia di persone, possono condividere una foto, un video o un messaggio.

Senza contare le conseguenze, del tutto paragonabili al bullismo tradizionale sia come tipologia che in termini di gravità. In entrambi i casi si manifestano nei ragazzi ansia, depressione, pensieri suicidi.

Esemplificativo il caso di Carolina Picchio (alla cui memoria è dedicato il nostro blog), la quale ad una festa si sente male e va in bagno, ubriaca.

La seguono, la circondano, la molestano e la filmano (ne scaturiranno 2.600 messaggi in 24 ore, tra Facebook, Twitter e Whatsapp).

Il video in particolare finisce in Rete, su Facebook, e dopo qualche tempo Carolina decide di farla finita e sceglie il salto nel vuoto lanciandosi dal terzo piano della sua casa di Novara, dove viveva con il padre.
Aveva 14 anni.

Così come aveva 14 anni (l’altra 15) una delle due baby-prostitute dei Parioli adescate, inizialmente, sul Web.

 

Rischi (Pedofilia On-line)

L’autorità governativa posta a protezione dell’infanzia australiana dal cyberbullismo e dalla pedofilia online (Australia’s new Children’s eSafety Commissioner), ha pubblicato i risultati di una sua indagine del 2015 spiegando come “decine di migliaia di foto e video su Facebook, Kik e Instagram, che ritraggono bambini nelle loro normali e familiari attività quotidiane, sono state scoperte dagli investigatori tra i materiali pedopornografici denunciati alle autorità”.

Da questo rapporto si evince che il 50% del materiale foto e video rintracciato sui siti pedopornografici viene scaricato direttamente dai social network.

Uno degli investigatori del Children’s eSafety Commissioner racconta di un sito web con almeno “45 milioni di immagini” con bimbi che corrono in spiaggia con gli aquiloni in mano, fotografie di fratelli e sorelle impostate come foto del profilo di Facebook, perfino neonati in braccio a mamme e papà in sorridenti selfie.

Il ricchissimo e infinito materiale scovato dagli investigatori australiani è finito sui social postato direttamente dai genitori o addirittura dai ragazzini stessi, che lo caricano senza pensare alle possibili conseguenze.

In media, entro 10 giorni dal momento in cui è stato caricato, quel materiale sarà visto 1,7 milioni di volte, con alta probabilità di diventare contenuto di discussione sessuale esplicita sui siti pedofili incriminati.

 

Alcune regole per gli adulti

Cyber-attivarsi: per un genitore di un nativo digitale è impensabile non sapere cosa siano i Social Network, le piattaforme di messaggistica istantanea e tutto quanto collegato al mondo dell’hi-tech. Si dovrà essere costantemente al passo con i tempi: possedere un account Facebook, avere installata sullo smartphone l’app di WhatsApp e imparare a conoscere il mondo digitale frequentato dai ragazzi.

Entusiasmarli: è giusto aiutare i propri figli a trovare siti web e portali che sappiano stimolare la loro curiosità e li inducano a fare ricerche e conoscere cose sempre nuove.
Soprattutto, bisogna fare in modo che alla curiosità virtuale corrisponda quella reale: spingerli ad uscire di casa, a verificare de visu che le cose siano effettivamente come scritto online. Internet è un mezzo potentissimo e bellissimo, ma mai sostitutivo della vita reale.

Interagire: la Rete, come detto, può nascondere molti pericoli.
Si dovrà discuterne con i ragazzi, diventare un punto di riferimento cui rivolgersi nel caso in cui avvertano pericoli e vogliano essere confortati.

Essere un modello: esattamente come accade nella “vita reale”, se si vuole sperare di ottenere un risultato con i ragazzi è necessario essere e comportarsi come un modello esemplare. Se si ha un rapporto sano ed equilibrato con la tecnologia, probabilmente lo stesso accadrà ai ragazzi.

Chiedere: se si hanno dubbi sui comportamenti in Rete dei nostri ragazzi, è necessario chiedere direttamente a loro. Non si devono vestire i panni del novello Sherlock Holmes e non si deve iniziare a indagare privatamente sulla loro vita privata. Nel caso in cui si dovesse essere colti in fallo, si perderebbe d’un colpo tutta la credibilità e la loro fiducia. In questi casi, l’esser franchi e diretti paga dividendi molto più alti.

Sicurezza in Rete: la diffusione dei dati personali, sia in Rete sia nella “vita reale”, può comportare gravi rischi. Bisogna stabilire confini precisi e delineati su cosa possa essere condiviso e cosa non debba essere assolutamente pubblicato sui profili social o attraverso le applicazioni di messaggistica istantanea.
Per evitare che i propri ragazzi possano essere oggetto di attenzioni particolari di malintenzionati, si dovrà attivare un dialogo franco e diretto: parlare con loro di sessualità e affettività permetterà di sviluppare un rapporto più sano e sincero anche su questi aspetti, rendendoli affettivamente più sicuri e sessualmente più consapevoli. Non esitare, infine, a denunciare molestatori e pedofili: la sicurezza dei ragazzi (tutti, non solo i propri figli) viene prima di ogni cosa.

 

Alcune regole per i ragazzi

Non fingere: le piattaforme sociali, spesso e volentieri, si trasformano nel luogo in cui i giovani si mettono in mostra e cercano approvazione dai coetanei.
Sono spinti, a volte, a mettere in atto comportamenti lontani dal loro modo di essere con il solo obiettivo di essere accettati all’interno della comunità virtuale prima e scolastica poi.
Per questo non bisogna mai tentare di apparire diversi da come si è realmente né di attaccare gli altri per il solo gusto di farlo: bisognerà, invece, limitare le proprie interazioni virtuali solo con persone che si conoscono realmente, tentando di essere gentile e scrivere cose creative.

Prima di postare pensa: attenzione ai contenuti che si postano sui social, una volta pubblicati, uno status, un tweet, una foto o un filmato sono di pubblico dominio e potenzialmente accessibili a chiunque.
Così come al contrario divulgare messaggi denigratori su una compagna di classe può rappresentare diffamazione.
In caso di foto che la ritraggono seminuda (a seno scoperto ad esempio) si parla di diffusione di materiale pedopornografico. E se si ha più di 14 anni si è perseguibili per legge.
In ultimo, entrare nel profilo Facebook di un compagno, impossessandosi della password, potrebbe apparire poco più di uno scherzo, per la Polizia Postale è furto di identità.

La fiducia vale oro e non si fanno sconti: allo stesso modo non bisogna lasciarsi trasportare troppo in fretta da sentimenti e passioni nati online. Nel caso di relazioni online bisogna sempre tener conto dell’età, dietro un nickname e una foto di un teenager possono nascondersi adulti con cattive intenzioni. Per esser certi dell’età di chi si ha davanti è consigliabile utilizzare la webcam, stando ben attenti a non mettere in atto comportamenti sconvenienti e pronti a diffidare di chi si rifiuta di effettuare una videochiamata.
Anche il sesso online, seppur virtuale, può diventare pericoloso. Non si sa mai, infatti, chi si nasconde dall’altro capo del monitor; né se chi è dall’altra parte stia filmando o meno: nel giro di poche ore la Rete potrebbe essere invasa da immagini personali intime.

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Conclusioni

Fondamentale, è tracciare confini netti, tanto nella vita reale (ed in classe), quanto nella propria vita virtuale.
La prevenzione è il primo aspetto su cui lavorare, favorendo la conoscenza del fenomeno e la consapevolezza dei rischi legati alle nuove tecnologie, non solo nei ragazzi, ma anche e soprattutto nei genitori e negli insegnanti.

 

Letture e link utili

La Polizia Postale e delle Comunicazioni ha partecipato alla stesura del Codice di autoregolamentazione “Internet e Minori”, in collaborazione con il Ministero delle Comunicazioni, dell’Innovazione e le Tecnologie, e le Associazioni degli Internet Service Providers.

Il Codice nasce per aiutare adulti, minori e famiglie nell’uso corretto e consapevole di Internet, fornendo consigli e suggerimenti per navigare in rete insicurezza.
( Link: https://www.commissariatodips.it/da-sapere/per-i-genitori/navigazione-sicura-e-consapevole-dei-minori-su-internet.html )

Una vita da Social
Un progetto sempre della Polizia Postale e delle Comunicazioni sulla sicurezza nell’uso della Rete, rivolto agli utilizzatori dei social network ed in particolare agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, ai loro insegnanti e ai loro familiari.
( Link: https://www.facebook.com/unavitadasocial )

Australia’s new Children’s eSafety Commissioner
( Link: https://www.esafety.gov.au/complaints-and-reporting/cyberbullying-complaints/social-media-services-safety-centres )

«Tu non sei tenuto a finire il lavoro ma non te ne puoi esimere» (Talmud)

Si ringraziano vivamente CULTUR-E e FASTWEB per aver acconsentito all’utilizzo di contenuti qui presenti soggetti a copyright ©

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La diversità piega la vita per annusare i fiori migliori

Sempre più spesso nelle classi dei nostri figli ci sono bambini o ragazzi a cui è stata certificata una disabilità, e quindi sono affiancati da un’insegnante di sostegno e, in alcuni casi, anche da un educatore comunale.

La preoccupazione di alcuni genitori a volte è che il fatto di avere in classe bambini e ragazzi che hanno bisogno di tempi più lunghi e di modalità diverse per apprendere possa “rallentareil programma dell’intera classe e quindi l’apprendimento del loro figlio.

Ma è davvero così?

A questo proposito è bene sottolineare che l’insegnante di sostegno, non è un docente che lavora esclusivamente sul ragazzo disabile ma ha la “contitolarità della classe”.

Già da questo primo punto si può evincere come la presenza di un alunno disabile in classe non toglie nulla ai compagni ma anzi aggiunge una risorsa che può essere utile e decisiva per lui ma anche per la totalità dei compagni.

E’ fondamentale, poi, ragionare su ciò che si intende oggi per disabilità.

Questa definizione, che ad una prima lettura può sembrare complicata, in realtà racchiude un’idea molto semplice: una persona, e quindi un alunno, vive una disabilità quando la sua condizione di salute nel suo ambiente di vita limita la sua possibilità di agire e partecipare.

Facciamo degli esempi: secondo l’ICF un bambino ipo-acusico (con difficoltà uditive) non è disabile di per sé, ma ha una disabilità nel momento in cui per esempio a scuola è messo in una posizione nella classe in cui non può accedere alla lettura labiale dei compagni e dell’insegnante, in cui vi sono solo spiegazioni verbali alle lezioni senza l’aiuto della lavagna, in cui si fanno riferimenti a concetti astratti senza esempi ed esperienze concrete.

Oppure ancora, un bambino non vedente ha una disabilità nella sua classe se non vi è una spiegazione verbale di quello che si sta facendo alla lavagna, se non ha a disposizione materiale didattico “tattile” o libri scritti in braille.

Così come un bambino con DSA  trova difficoltà solo nel momento in cui non gli si mettano a disposizione gli strumenti compensativi di cui ha bisogno: mettendolo in condizione di disporre di questi strumenti la difficoltà scompare (non il suo problema che rimane, ma scompare la sua limitazione nella partecipazione).

Questa concezione porta una conseguenza rivoluzionaria: se si interviene correttamente sull’ambiente, tenendo conto delle problematiche dei nostri ragazzi, possiamo ridurre o addirittura eliminare, almeno in quel contesto, la loro difficoltà.

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I disabili non sono una categoria “a parte”, fissa e stabile, la disabilità è una condizione mutevole che varia nel tempo a seconda del contesto e che può momentaneamente riguardare tutti, anche i nostri figli.

L’esempio più immediato è quello fisico: un bambino che per 3 mesi è costretto a venire a scuola in sedia a rotelle con il gesso perché si è rotto la gamba ha una condizione di salute tale per cui senza gli adeguati accorgimenti e facilitazioni nel contesto (un banco adatto, una rampa al posto delle scale, un assistente che lo accompagni al bagno ecc.) vive una condizione di disabilità.

Anche un bambino con qualche lieve problema di vista a cui si rompono gli occhiali vive una situazione di disabilità, anche se momentanea, in cui la sua partecipazione è limitata se non si interviene per aiutarlo ad ovviare a questo problema.

Così come un bambino celiaco  che non ha a disposizione del cibo senza glutine. 
O un bambino straniero senza nessuno che possa aiutarlo nella traduzione di ciò che viene proposto.

O un bambino particolarmente timido e inibito a cui si propongono solo prove sotto forma di interrogazioni orali davanti alla classe e mai compiti scritti. La sorpresa è che quindi anche nostro figlio può trovarsi inaspettatamente magari anche solo momentaneamente in una situazione di disabilità.

La questione della disabilità deve poter rappresentare un’occasione didattica e pedagogica per costruire gli elementi di una cultura di rispetto attorno alla disabilità, un’educazione rivolta a tutti gli alunni.

Su questo versante, l’iniziativa educativa è spesso lasciata all’eventuale volontà di alcuni docenti, ad alcune occasioni didattiche, ludiche, formative e alla spontaneità relazionale tra alunni. È tuttavia noto che iniziative sporadiche più o meno strutturate o di tipo spontaneistico non producono, nel lungo termine, gli impatti sperati.

Tali modalità non costruiscono una cultura consolidata attorno alla disabilità, non permettono di comprenderne a fondo le problematiche (lasciando gli alunni impauriti o sprovvisti di mezzi di fronte alla disabilità), né producono comportamenti inclusivi di lungo periodo.

Una volta separatesi le strade dal compagno con disabilità, gli alunni sembrano spesso dimenticare la questione,  ritornare indifferenti, diventando così, come gli adulti, gli inconsapevoli riproduttori di un senso comune stigmatizzante.

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Educare alla disabilità deve essere parte di una pedagogia capace di fare i conti con la soggettività dell’altro e con le sue diversità. È un’educazione che dovrebbe mirare a produrre prolungati comportamenti e azioni da mettere in pratica nelle concrete relazioni, non un’effimera pedagogia dei buoni sentimenti, né di pietistiche e socialmente inoperanti solidarietà.

In mancanza di veri e propri programmi educativi di largo respiro e larghe vedute, simili operazioni assumono la valenza di un’infarinatura, di una testimonianza, sono un’occasione utile per “gettare il sasso”.

Un sasso importante, ma non sufficiente per costruire una cultura inclusiva fatta più che di concetti e nozioni, di pensieri capaci di trasformarsi in concrete azioni quotidiane in cui emerga che l’altro (disabile in questo caso) non è oggetto di buoni sentimenti, e tantomeno di scherno, né di attenzioni specifiche, ma soggetto pieno, nelle relazioni, nell’apprendimento, nello stare in classe tanto quanto in società.

Una visione che abitua a pensare alla disabilità come ad una condizione che in diversi momenti della vita può riguardare chiunque e chiama in causa la responsabilità dell’ambiente e delle persone che lo vivono di pensare a misure, strategie, interventi ed ausili ad hoc per ciascun bambino.

Ecco quindi che il fatto che la classe sia composta da una grande varietà di persone differenti con differenti condizioni di salute (fisica e mentale) stimola ed abitua anche gli adulti e gli insegnanti ad una didattica sempre più personalizzata che non vada a proporre le stesse nozioni a tutti nello stesso modo, ma che necessita di una pluralità di strategie e di approcci che non possono che rafforzare e agevolare l’apprendimento di tutti perché tiene conto delle caratteristiche peculiari di ciascuno.

Da ultimo non si può non sottolineare che al di là dei vantaggi “didattici” che può portare un approccio e una visione inclusiva della disabilità o meglio “bio-psico-sociale” (nel senso che tiene conto della salute fisica, mentale e dell’ambiente di vita del ragazzo e dell’interazione tra queste componenti) abitua anche gli alunni a scoprirsi ciascuno diverso, ciascuno fragile in uno o più aspetti, ciascuno vulnerabile e bisognoso del sostegno degli altri: in una parola educa all’empatia e alla cura dell’altro.

Presupposto indispensabile per una vita adulta in una società tollerante e giusta.

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Viaggio al termine della scuola

Sino ad alcuni anni fa la scuola primaria era un’eccellenza italiana riconosciuta internazionalmente.

Riprendendo il titolo, si potrebbe pensare di assistere, vista la rilevanza e la relativa decadenza della scuola primaria, alla notte della scuola italiana. 

In parte è così, ma non tutto è perduto, anzi.

Certo è che, se le regole con le quali si gioca fossero pensate in modo più condiviso, così come se i finanziamenti risultassero finalmente adeguati, tutto questo aiuterebbe, e di molto, la scuola a rimettersi in piedi ed a marciare verso orizzonti nuovi.

Vi sono comunque esperienze positive che stanno nascendo a macchia di leopardo un po’ in tutta Italia.

Lì dove vi sono progetti coraggiosi ed intraprendenti si stanno realizzando cambiamenti rilevanti.

Cambiamenti che non attendono il visto di questa o quella riforma, ma vivono anzi di luce propria.

Vi è la consapevolezza che il cambiamento, oltre ad essere un’opportunità, è divenuto oramai un esercizio che da risposte importanti già nel breve periodo.

Illuminante la testimonianza portata da Lizanne Foster, un’insegnante canadese che sta facendo discutere per le sue lettere ed articoli, scritti direttamente agli studenti di tutto il mondo, italiani in particolare.

Molto interessanti anche i percorsi che stanno intraprendendo realtà come l’Indire od il progetto Senza Zaino nato in Toscana, dove si teorizzano le classi rovesciate come nuovo modello di apprendimento.

In ultimo, non si può non porre l’attenzione su un altro fenomeno che affligge la scuola italiana: la dispersione scolastica.

Una “malattia” che ci vede ai primi posti nell’Unione Europea con una media intorno al 15%.

Anche qui però, dove la scuola innova e si reinventa fioriscono progetti all’avanguardia che non solo riescono ad intercettare il disagio, ma hanno anche la capacità di gestirlo, sprigionando energie positive prima nella scuola e successivamente nella società, recuperando tanti ragazzi altrimenti destinati ad un futuro incerto.   

In fondo, una notte lunga, termina pur sempre in un’alba.

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S’alza il vento

Il giorno 16 Febbraio 2016 sono state rinnovate le cariche del Comitato dei Genitori.

Una prima fase di vita del CdG, avviata nel Maggio 2015, ci ha obbligato necessariamente a concentrare i nostri sforzi per risolvere la questione relativa al rifacimento del tetto.

L’iter burocratico, ci è stato assicurato, è definito, il Comitato continuerà comunque a seguirlo attentamente, sino alla sua risoluzione.

Ora però pensiamo di dover avviare una fase diversa, in cui ci proponiamo di impegnarci per migliorare insieme a Voi genitori della Tacito-Guareschi la nostra scuola.

Non promettiamo niente, ma insieme possiamo rimettere in navigazione in mare aperto la barca.

S’alza il vento.

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PS: Questo blog è dedicato alla memoria di Carolina Picchio, morta troppo giovane e troppo ingiustamente