Femminicidio: ragionamenti da un dopoguerra mai davvero cominciato

Numeri

In Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni, 157 nel 2012, 179 nel 2013, 136 nel 2014 e 128 nel 2015 (fonte UniCusano), oltre 100 dall’inizio del 2016 (fonte Corriere della Sera)

Ma la violenza contro le donne è fenomeno così ampio e diffuso che non può essere rappresentato solo dalla conta, tragica, delle morti.

Dopo le frasi sessiste di Trump, ad esempio, le donne hanno raccontato le loro storie di violenza quotidiana, attraverso un hashtag lanciato su Twitter (#notokay), è emersa con chiarezza quella che il New York Times definisce «la cultura dello stupro», e che va ben oltre le parole di Trump: hanno scritto oltre 27 milioni di donne.

In Italia, 6 milioni 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni, il 20,2% ha subito violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri (652 mila) e tentati stupri (746 mila). Il 10,6% delle donne ha subito violenze sessuali prima dei 16 anni. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o ex, sono loro quelli che commettono le violenze più gravi, sino al Femminicidio (fonte Istat).

Si potrebbe continuare snocciolando numeri che riguardano le donne straniere, anello ancora più debole di una catena di violenza cieca ed inaudita, ma sarebbe discendere solo ulteriori gradini di un girone infernale.

Ma da questa spirale si deve partire, va conosciuta ed analizzata attentamente, al fine di predisporre politiche di governance, interventi nel tessuto sociale e culturale del paese, fino ad articolare azioni repressive finalmente efficaci.

Il tutto per porre fine a questa mattanza non più tollerabile, quasi fosse una guerra non dichiarata, in cui la preoccupazione più grande resta, comunque, quello di un dopoguerra mai davvero cominciato.

 

Quadro normativo ed interventi governativi

Il governo è intervenuto recentemente con lo strumento della decretazione di urgenza ex art. 77 Cost. decreto legge 14 agosto 2013 n. 93, convertito con modifiche dalla legge 15 ottobre 2013 n°119.

Il nostro Paese comunque, già prima dell’emanazione del decreto legge sul Femminicidio, con la legge 27 giugno 2013 n. 77, aveva ratificato la “Convenzione sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica” sottoscritta ad Istanbul dai membri del Consiglio d’Europa il 15 maggio 2011 (cd. Convenzione di Istanbul).

Il nuovo quadro normativo, in sostanza, da un lato aumenta le pene afflittive per chi si macchia di violenze, minacce, stalking e femminicidio, dall’altro determina tutta una serie di interventi in favore della vittima, tra i quali:

 –   Patrocinio gratuito a spese dello Stato per le persone offese

–   Intercettazioni telefoniche a tutela della vittima

–   Controllo mediante braccialetto elettronico in caso di lesioni personali procedibili d’ufficio o comunque aggravate e minacce aggravate (612, secondo comma c.p.), commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente

–   Arresto in flagranza, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dall’articolo 572 e dall’articolo 612-bis del codice penale (cfr. art. 380, comma 2, lett. l-ter).

Oltre il cambiamento normativo, il Ministero dell’Interno ha attivato da questa estate una campagna di sensibilizzazione chiamata #questononèamore mettendo a disposizione postazioni mobili della Polizia con un team di operatori specializzati.

Il Team composto da uno psicologo della Polizia, un operatore della squadra mobile, uno della divisione anticrimine e un rappresentante della rete locale antiviolenza, «quella parte della società che si fa carico di sostenere le vittime», l’ha definita il Capo della Polizia, Franco Gabrielli, sottolineando l’aspetto insidioso di questo tipo di reati, che «prima ancora sono un fenomeno culturale».

 

Le trasformazioni sociali: maschile e femminile alla ricerca di nuovi ruoli ed equilibri

Sin dall’antichità la donna è stata sottomessa all’uomo, prima al padre, poi al marito, e non aveva né diritti, né grande possibilità di movimento ed era fondamentalmente relegata in casa.

A partire dal Medioevo, le donne cominciarono a lavorare fuori casa, anche se il loro ruolo principale continuava ad essere quello di prendersi cura della famiglia, nella cornice formale del matrimonio che, generalmente, era combinato dai genitori non su criteri affettivi, bensì su quelli della convenienza economica.

Il compito principale della sposa era infatti quello di garantire alla famiglia eredi e successori, infine trasmettere nome e ricchezze.

Questa condizione femminile, cui era riconosciuto appunto un ruolo essenziale nell’educazione della prole, non ebbe mutamenti significativi per secoli.

Nel periodo moderno si ebbero importanti cambiamenti invece, grazie alla diminuzione della mortalità si accelerò il passaggio dalla famiglia, intesa come soggetto economico primario, alla famiglia intesa come unità di tipo sentimentale, raggiungendo prima la stabilità demografica e successivamente l’incremento inarrestabile per come lo conosciamo oggi.

Oggi il modello della famiglia tradizionale sta subendo colpi significativi, per la generale emancipazione culturale, in particolare proprio di quella delle donne.

Nascono le “nuove famiglie” e la soggettività assume via via un ruolo centrale nella società, in questo contesto la figura del padre-marito, che impone la sua autorità sugli altri membri della famiglia, è entrata definitivamente in una linea d’ombra.

I ruoli tradizionali non appaiono più come capaci di rappresentare e garantire le relazioni amorose tra i sessi, relazioni che si fanno sempre più elettive e fondate principalmente su una scelta personale.

Le donne diventano sempre più emancipate culturalmente e spesso vivono da sole, creando financo delle famiglie unipersonali, superando così limiti culturali ancestrali e diventando via via più competitive, rifiutando il ruolo di spalla, men che mai quello che le vede relegate ad una qualche subalternità.

Alla luce di quanto esposto sopra, il ruolo dell’uomo attraversa una fase di cambiamento radicale quanto profonda, e si va sovrapponendo ai mutamenti culturali e sociali del nostro tempo, tanto veloci quanto complicati da mettere a fuoco, in assenza di una capacità di lettura profonda della realtà o di un’attitudine funzionale quanto predisposta all’empatia.

Lo stereotipo che vuole l’uomo costretto nel ruolo di pater familias, figura sempre forte, dominante e sicura di sé, ha progressivamente lasciato il passo, negli ultimi decenni, a modelli meno definiti con i quali gli uomini possono riuscire ad identificarsi.

Il prodotto di tutto questo è che gli uomini perdono la posizione privilegiata di cui hanno sempre beneficiato ed incontrano difficoltà inedite a mantenere potere e credibilità agli occhi dell’altro sesso, nonché ai propri.

L’uomo in crisi, che vive come una minaccia la perdita della propria identità, molto spesso finisce per evitare ogni confronto e reagisce chiudendosi difensivamente in sé.

Semplificare la quotidianità secondo uno schema, organizzare le informazioni di ciò che si vive in categorie immutabili, può dare l’illusione di un malinteso senso di sicurezza e controllo sulla realtà. Ma è intransigenza appunto e non forza.

Se a ciò aggiungiamo il retaggio di un recente passato (parliamo di 50 anni fa o poco più), in cui le donne, in certe zone del paese, valevano poco più di un capo di bestiame, o dove il suffragio universale è stato introdotto solamente nel 1946, forse riusciamo ad inquadrare meglio la questione ed i prodromi che l’hanno prodotta.

Tanti, troppi uomini, reagiscono a questo cambiamento mostrando aggressività, prendendosi con la forza quello che, ai loro occhi, questa nuova società in divenire, fondata sulla sentimentalizzazione invece che sull’autoritarismo (processo che non concepiscono), gli sta pian piano portando via: che sia una donna, una casa, o i figli (quando non tutti e tre).

Troppo spesso la reazione, incontrollata e criminale, è quella di riprendersi (o portare via con se) quello che, credono sia, una loro proprietà.

 

Conclusioni

Di fronte ad un problema così drammatico, trarre conclusioni diventa un esercizio tanto ardimentoso quanto fondamentalmente inutile.

Ripartire forse dal rapporto madre-figlio(maschio)? E’ una possibilità. Sicuramente si deve investire sull’educazione ed i corretti percorsi di crescita dei nostri figli.

Ma quando istituzioni salde da millenni, come la famiglia ed il matrimonio, vivono una crisi profonda e senza precedenti, dobbiamo forse anche sforzarci di immaginare contenitori nuovi? Più al passo con questi tempi di permanente connessione ma corporeità assente o con poco segnale?

Eppure a terra giacciono tanti corpi, centinaia e centinaia di corpi.

Una guerra questa sul corpo delle donne mai veramente dichiarata, ma mai nemmeno risolutivamente ripudiata, attraverso uno sforzo di comprensione e presa di coscienza collettiva.

Cosa rimane allora?

Dov’è che siamo rimasti soli con i nostri demoni, oltre il ripensare gli argini del nostro scorrere e ricomporre il puzzle in frantumi del nostro sentire?

Come pirati storditi in fuga da una strage, involontari colpevoli in fondo, di un unico imperdonabile peccato originale, quello che ci fa estranei tra eguali: non ci hanno insegnato ad amarci.

 

FONTI E LINK UTILI

www.altalex.com

Istat

Corriere della Sera

Ministero dell’Interno
 

femminicidio“Bien trop de femmes dans bien trop de pays parlent la meme langue: le silence”
[Anasuya Sengupta]