La diversità piega la vita per annusare i fiori migliori

Sempre più spesso nelle classi dei nostri figli ci sono bambini o ragazzi a cui è stata certificata una disabilità, e quindi sono affiancati da un’insegnante di sostegno e, in alcuni casi, anche da un educatore comunale.

La preoccupazione di alcuni genitori a volte è che il fatto di avere in classe bambini e ragazzi che hanno bisogno di tempi più lunghi e di modalità diverse per apprendere possa “rallentareil programma dell’intera classe e quindi l’apprendimento del loro figlio.

Ma è davvero così?

A questo proposito è bene sottolineare che l’insegnante di sostegno, non è un docente che lavora esclusivamente sul ragazzo disabile ma ha la “contitolarità della classe”.

Già da questo primo punto si può evincere come la presenza di un alunno disabile in classe non toglie nulla ai compagni ma anzi aggiunge una risorsa che può essere utile e decisiva per lui ma anche per la totalità dei compagni.

E’ fondamentale, poi, ragionare su ciò che si intende oggi per disabilità.

Questa definizione, che ad una prima lettura può sembrare complicata, in realtà racchiude un’idea molto semplice: una persona, e quindi un alunno, vive una disabilità quando la sua condizione di salute nel suo ambiente di vita limita la sua possibilità di agire e partecipare.

Facciamo degli esempi: secondo l’ICF un bambino ipo-acusico (con difficoltà uditive) non è disabile di per sé, ma ha una disabilità nel momento in cui per esempio a scuola è messo in una posizione nella classe in cui non può accedere alla lettura labiale dei compagni e dell’insegnante, in cui vi sono solo spiegazioni verbali alle lezioni senza l’aiuto della lavagna, in cui si fanno riferimenti a concetti astratti senza esempi ed esperienze concrete.

Oppure ancora, un bambino non vedente ha una disabilità nella sua classe se non vi è una spiegazione verbale di quello che si sta facendo alla lavagna, se non ha a disposizione materiale didattico “tattile” o libri scritti in braille.

Così come un bambino con DSA  trova difficoltà solo nel momento in cui non gli si mettano a disposizione gli strumenti compensativi di cui ha bisogno: mettendolo in condizione di disporre di questi strumenti la difficoltà scompare (non il suo problema che rimane, ma scompare la sua limitazione nella partecipazione).

Questa concezione porta una conseguenza rivoluzionaria: se si interviene correttamente sull’ambiente, tenendo conto delle problematiche dei nostri ragazzi, possiamo ridurre o addirittura eliminare, almeno in quel contesto, la loro difficoltà.

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I disabili non sono una categoria “a parte”, fissa e stabile, la disabilità è una condizione mutevole che varia nel tempo a seconda del contesto e che può momentaneamente riguardare tutti, anche i nostri figli.

L’esempio più immediato è quello fisico: un bambino che per 3 mesi è costretto a venire a scuola in sedia a rotelle con il gesso perché si è rotto la gamba ha una condizione di salute tale per cui senza gli adeguati accorgimenti e facilitazioni nel contesto (un banco adatto, una rampa al posto delle scale, un assistente che lo accompagni al bagno ecc.) vive una condizione di disabilità.

Anche un bambino con qualche lieve problema di vista a cui si rompono gli occhiali vive una situazione di disabilità, anche se momentanea, in cui la sua partecipazione è limitata se non si interviene per aiutarlo ad ovviare a questo problema.

Così come un bambino celiaco  che non ha a disposizione del cibo senza glutine. 
O un bambino straniero senza nessuno che possa aiutarlo nella traduzione di ciò che viene proposto.

O un bambino particolarmente timido e inibito a cui si propongono solo prove sotto forma di interrogazioni orali davanti alla classe e mai compiti scritti. La sorpresa è che quindi anche nostro figlio può trovarsi inaspettatamente magari anche solo momentaneamente in una situazione di disabilità.

La questione della disabilità deve poter rappresentare un’occasione didattica e pedagogica per costruire gli elementi di una cultura di rispetto attorno alla disabilità, un’educazione rivolta a tutti gli alunni.

Su questo versante, l’iniziativa educativa è spesso lasciata all’eventuale volontà di alcuni docenti, ad alcune occasioni didattiche, ludiche, formative e alla spontaneità relazionale tra alunni. È tuttavia noto che iniziative sporadiche più o meno strutturate o di tipo spontaneistico non producono, nel lungo termine, gli impatti sperati.

Tali modalità non costruiscono una cultura consolidata attorno alla disabilità, non permettono di comprenderne a fondo le problematiche (lasciando gli alunni impauriti o sprovvisti di mezzi di fronte alla disabilità), né producono comportamenti inclusivi di lungo periodo.

Una volta separatesi le strade dal compagno con disabilità, gli alunni sembrano spesso dimenticare la questione,  ritornare indifferenti, diventando così, come gli adulti, gli inconsapevoli riproduttori di un senso comune stigmatizzante.

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Educare alla disabilità deve essere parte di una pedagogia capace di fare i conti con la soggettività dell’altro e con le sue diversità. È un’educazione che dovrebbe mirare a produrre prolungati comportamenti e azioni da mettere in pratica nelle concrete relazioni, non un’effimera pedagogia dei buoni sentimenti, né di pietistiche e socialmente inoperanti solidarietà.

In mancanza di veri e propri programmi educativi di largo respiro e larghe vedute, simili operazioni assumono la valenza di un’infarinatura, di una testimonianza, sono un’occasione utile per “gettare il sasso”.

Un sasso importante, ma non sufficiente per costruire una cultura inclusiva fatta più che di concetti e nozioni, di pensieri capaci di trasformarsi in concrete azioni quotidiane in cui emerga che l’altro (disabile in questo caso) non è oggetto di buoni sentimenti, e tantomeno di scherno, né di attenzioni specifiche, ma soggetto pieno, nelle relazioni, nell’apprendimento, nello stare in classe tanto quanto in società.

Una visione che abitua a pensare alla disabilità come ad una condizione che in diversi momenti della vita può riguardare chiunque e chiama in causa la responsabilità dell’ambiente e delle persone che lo vivono di pensare a misure, strategie, interventi ed ausili ad hoc per ciascun bambino.

Ecco quindi che il fatto che la classe sia composta da una grande varietà di persone differenti con differenti condizioni di salute (fisica e mentale) stimola ed abitua anche gli adulti e gli insegnanti ad una didattica sempre più personalizzata che non vada a proporre le stesse nozioni a tutti nello stesso modo, ma che necessita di una pluralità di strategie e di approcci che non possono che rafforzare e agevolare l’apprendimento di tutti perché tiene conto delle caratteristiche peculiari di ciascuno.

Da ultimo non si può non sottolineare che al di là dei vantaggi “didattici” che può portare un approccio e una visione inclusiva della disabilità o meglio “bio-psico-sociale” (nel senso che tiene conto della salute fisica, mentale e dell’ambiente di vita del ragazzo e dell’interazione tra queste componenti) abitua anche gli alunni a scoprirsi ciascuno diverso, ciascuno fragile in uno o più aspetti, ciascuno vulnerabile e bisognoso del sostegno degli altri: in una parola educa all’empatia e alla cura dell’altro.

Presupposto indispensabile per una vita adulta in una società tollerante e giusta.

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